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profilo a cura di C2C (ClubToClub)

Cristalli Liquidi: synth pop démodé, testi alieni e “Miti Ellenici (Soundwall)

Come l’ultimo Battisti, però acid house: Bottin racconta il progetto Cristalli Liquidi (Rockit)

Off Topic Magazine

L’italo-wave è potente nei Cristalli Liquidi (Rollingstone)

Storiadellamusica.it (anno?)

Rosso Carnale (Decadance)

La folgorazione e il mestiere (Rumore)

Cristalli Liquidi: Battisti, Panella e l’Italodisco (Giornale della Musica)

La discollezione di Bottin (Decadance)


CLUB TO CLUB (Torino, anno?)

Bottin vive a Venezia, è produttore, dj e sound designer. Le sue prime influenze sono le colonne sonore dei film horror e fantascienza, il cosmic sound e un’infarinatura kitsch di italo disco. Dopo i primi due album, comincia a lavorare come produttore e arrangiatore per popstar italiane come Lucio Dalla e Rettore. Le sue uscite discografiche di culto includono ‘Fondamente Nove’ per la Eskimo (2008) e ‘No Static’ per l’etichetta statunitense Italians Do It Better (2009). Con il suo acclamato concept album ‘Horror Disco’ (Bearfunk Records UK), Bottin si piazza in prima linea nel movimento di revival della disco italiana. Tra le uscite, la collezione di remix ‘Discoursive Diversions’, mentre il 2011 ha visto l’uscita del singolo ‘Discocracy’ oltre ad ‘Aztaro’, una collaborazione con Justus Köhncke e Rusty Egan dei Visage. Dopo essersi esibito in più di 30 Paesi e 4 continenti, dall’Europa all’America passando per Asia e Australia, dai migliori party underground europei a locali come lo Space ed il Pacha di Ibiza, la reputazione di Bottin non smette di consolidarsi. I suoi dj set sono un viaggio imprevedibile tra space-disco, rarità italiane ed il funk estremo. Un mix spericolato di sonorità retro-futuristiche che incendiano la pista.


Cristalli Liquidi: synth pop démodé, testi alieni e “Miti Ellenici”
(Marco Dal Sasso, 2018)

Dopo cinque lunghi anni di lavoro Bottin e i suoi Cristalli Liquidi consegnano al grande pubblico il primo, omonimo, album. Nove tracce che raccontano in chiave “synth pop démodé” un’Italia distinta ed educata, mai banale sia nei testi che nelle musiche. Equamente divisi in produzioni originali e cover (Battisti, Venditti, Stadio, LCD Soundsystem) i brani scorrono veloci e confermano ancora una volta, come se servisse, le qualità del producer veneto. Il vinile è già disponibile e, dal 4 dicembre, sarà disponibile anche il formato digitale il tutto curato dalla label olandese Bordello a Parigi. Noi abbiamo trovato il progetto molto interessante e ci siamo fatti raccontare dallo stesso Bottin come nascono i Cristalli Liquidi e che significato hanno alcuni dei primi singoli di questa band, band? Un consiglio, accompagnate la lettura ascoltando qui gli snippet di tutte le tracce.

I Cristalli Liquidi sono una band o sei tu in versione “one man band”? Sono sicuro che in molti, me compreso, abbiano sempre pensato ad un trio traditi dal nome.

E’ una band immaginata. Avevo fatto anche circolare delle foto di cui si vedevano altre persone, per la verità sempre diverse. Nella realtà i primi singoli me li sono suonati e cantati da solo e alla svelta: mi ero dato la regola di fare tutto in un giorno. Volevo creare un side project misterioso in cui compariva solo il nome del produttore Tinto B. (anagramma di Bottin). Poi con il tempo il progetto si è ampliato, ho iniziato a coinvolgere amici e colleghi: Polosid ha arrangiato QILDE, Cristiano Verardo (ex Pitura Freska) ha suonato le chitarra e missato alcuni brani dell’album. Alexander Robotnick è presente su ben tre brani: ha fatto la musica di Sciame (sulla quale ho scritto poi il testo), Assolvi Lei è la mia rielaborazione di un suo brano inedito, infine Tubinga l’abbiamo prodotta a quattro mani nel suo studio di Firenze. Cristalli Liquidi è un non-gruppo. E’ un progetto solista aperto.

Italo-wave/disco, Battisti, Venditti, gli Stadio, tutto questo riassunto in un album concepito in cinque anni, senza fretta, che suona “seriosamente” pop. Un side-project che permette di esprimere liberamente la tua voglia di canzone dove le parole si sommano alla musica di cui da sempre ti occupi e per cui tutti ti conosciamo?

Volevo provare a fare delle cose in italiano. Dei brani italo disco che sembrassero venire dal passato (le grafiche dei primi singoli ricalcavano quelle dell’epoca). Ho iniziato con delle mie versioni di brani già editi ma poco conosciuti per poi arrivare a scrivere io testi e musica. Si può dire che l’album sia per metà citazione e per metà creazione.

L’album è già disponibile in vinile e dal 4 dicembre lo sarà anche in versione digitale il tutto grazie a Bordello a Parigi, stimata label olandese. Ottimo esordio per un progetto che tu stesso hai definito essere “iniziato come burla”, soddisfatto? Nessuna label italiana si è interessata al progetto o hai preferito affidarlo a BaP visto le sonorità a loro famigliari?

Una burla il progetto ma anche il tentativo di piazzare il disco a qualche etichetta italiana più o meno indie: mi facevano i complimenti ma alla fine non se la sentivano di pubblicarlo. Forse perché non è rock. Non l’hanno detto apertamente ma traspariva che non fosse un sound adatto a loro, un synth pop démodé distante dal loro mondo. Per non parlare dei testi assolutamente alieni dalle consuete narrazioni generazionali. Sbagliando me lo spiego così. O forse non sbagliando. Comunque i singoli erano stati stampati in Olanda e, da lì distribuiti, erano andati meglio all’estero che in Italia. Bordello A Parigi già aveva distribuito in Europa una mia release uscita inizialmente solo negli Stati Uniti. Quando hanno sentito l’album di Cristalli Liquidi c’è stato subito interesse, nonostante i testi fossero totalmente incomprensibili per loro. Sono molto contento della copertina di Paolo Palma/Metodo Studio che peraltro ha uno stile grafico che a me sembra influenzato dai lavori di Wim Crouwel o Piet Mondrian, olandesi.

Ascoltando l’album ho spesso pensato “questa è perfetta per un remix”, un’idea sbagliata la mia o ci stai lavorando o magari ci stanno lavorando altri per te?

E’ già in produzione un 12 pollici con i remix di Robotnick di Black Spuma (Fabrizio Mammarella e Phillip Lauer). Abbiamo pensato di inserire anche la versione extended di Volevi Una Hit, il vinile originale del 2012 è da tempo esaurito e difficile da trovare.
E’ stato usato anche da Chiara Fumai (artista e amica da poco scomparsa e a cui l’album è dedicato) come ultimo brano nella sua lecture-performance “Nico Fumai”, mitologico artista della disco music italiana, in verità anch’egli immaginario come la band Cristalli Liquidi.

Nel corso di questi cinque anni i Cristalli liquidi hanno pubblicato alcuni singoli per la Artifact Records. Ci riassumi in una playlist i più significativi così da capire qual è la vera identità del gruppo? La familiarità tra “Volevi Una Hit” dei Cristalli Liquidi e “You Wanted A Hit” degli LCD Soundsystem potrebbe essere un ottimo spunto per iniziare…

“Volevi Una Hit” è nata come falso storico, una versione musicale delle teste di Modigliani. L’idea è che gli LCD si fossero ispirati ad un fantomatico brano italo disco del 1984. Il testo inizia con la traduzione in italiano dei primi versi di You Wanted A Hit, ma subito prende una piega totalmente diversa, come pure la melodia del ritornello. La proposi all’Italians Do It Better (con cui avevo già pubblicato alcune cose) ma per timore di rappresaglie da parte di LCD e DFA non la vollero pubblicare. Poi dal nulla mi arrivò una mail di James Murphy che chiedeva il file di un mio brano di cui aveva distrutto il vinile. Colsi l’occasione per mandagli Volevi Una Hit e lui approvò. Mi inventai così la label Artifact e feci stampare un vinile identico a quelli della DiscoMagic del 1984 (guardando bene si legge DiscoTragic). Un’operazione ai limiti dell’illegale anche se moralmente ineccepibile, con il benestare degli autori.

Il disco andò bene, prima ancora di ricevere le mie copie dal distributore lo sentii suonare al Tresor a Berlino. Andò esaurito e fu ristampato quasi subito. In Italia uscì anche come 45 giri/7 pollici su Mashhh! con un bel remix di Casa Del Mirto. Toccava farne un altro. Trovai questo disco strano di Adriano Pappalardo (“Oh era ora”), arrangiato da Lucio Battisti con il Fairlight CMI ed i testi di Vanera (pseudonimo di Pasquale Panella) e feci una versione di “Canzone Registrata” (Caroline e l’Uomo Nero) che è una meta-canzone sul rapporto tra il cantante e la sua ascoltatrice, come se il disco cantasse solo per lei. Quando poi il disco si ferma, il cantante dove va a finire? E’ come un’anatra che sparisce quando d’inverno il suo lago si ghiaccia. E’ la stessa domanda sulle anatre di Central Park ne Il Giovane Holden di Salinger.

“Incubo Assoluto”, brano semi-sconociuto degli Stadio, con testo di Freak Antoni degli Skiantos, fu scelto per come si prendeva gioco del creativo narcisista in preda a tormenti esistenziali, figura forse un po’ autobiografica ma sempre di grande attualità. Fu realizzato con il Solton Programmer 24, una tastiera arranger del 1985 che ho comprato dopo aver scoperto che ci avevano fatto Fotonovela di Ivan, uno dei classici della italo disco.

“Sciame” è il primo brano completamente originale. La musica è di Robotnick, il testo mio. Per un caso del destino entrai in contatto con Pasquale Panella e glielo inviai.
Panella, che per me è come l’oracolo di Delfi, mi rispose con una bella lettera in cui prima approvava e poi mi invitava – quasi intimava – di andare oltre, sottolineando l’importanza di schivare il consenso perché chi lo ottiene ne viene inevitabilmente abbattuto.
Di cosa parla Sciame? Del club visto dalla consolle? Di socialità meccanica? Di stati di coscienza alterati? Non ha importanza: la ricerca del senso è uno dei temibili tentacoli del consenso.

Come l’ultimo Battisti, però acid house: Bottin racconta il progetto Cristalli Liquidi (Fabio De Luca, 2018)

Per rendere mirabolante la sua biografia, sarebbe fantastico riassumerla così: “Nacque a Venezia, lo stesso anno in cui i Kraftwek eseguirono “The Robots” in diretta tv dal Lido”. Invece (guastafeste!) William Bottin venne al mondo l’anno prima, e per di più a Padova. Vive però quasi da sempre a Venezia (si segnala un anno in Canada quand’era teenager: una specie di scambio intercontinentale tra studenti), ed è lì – sulla breve scalinata di fronte alla stazione Santa Lucia – che ci incontriamo una mattina dello scorso dicembre, poco prima di Natale. Avete mai girato per Venezia con uno del posto? È esattamente come ve lo immaginate: zig-zag velocissimi tra le calli, totale perdita dell’orientamento dopo la terza scorciatoia, grumi solidi di turisti fatti brillare come le rocce di Asteroids, e poi osterie. Decine, dozzine, forse centinaia di osterie, dove ti riempiono il bicchiere senza il minimo plissé fin dalle undici, forse anche prima. Siamo qui per chiacchierare: di massimi sistemi (ovvio), ma soprattutto del primo album dei Cristalli Liquidi. Progetto “di pop italiano” dal problematico collocamento: di certo non indie, e di certo non giovanilista, forse sintetizzabile (semplificando un po’) nella formula: “il Battisti dell’ultimo periodo, però acid house”. Del resto, fu proprio all’ombra di un altro Lucio gigantesco – Dalla – che è iniziata la storia di Bottin, una quindicina di anni fa, quando curò insieme a lui le musiche per l’opera teatrale “Speak Truth to Power: voci contro il potere”. Di quella stagione rimane traccia anche dentro un pezzo ancora oggi sotterraneamente di culto tra i dj: una cover di “Lunedì cinema”, sigla tivù scritta da Lucio e gli Stadio nel 1983, risuonata vent’anni dopo da Bottin e ricantata (il famoso “dabadu-dabededa”) da Dalla medesimo nel suo home studio in via Massimo D’Azeglio, a Bologna. Inevitabilmente, si parte da lì. 

Vorrei iniziare chiedendoti canonicamente “un tuo ricordo di Lucio Dalla”, ma mi rendo conto che ti metterei nella posizione di Verdone in “Borotalco”, la famosa scena fuori dalla roulotte: “Stai, Lucio, staistaistai”…
Aaah, di lui mi ricordo le volte (tante) in cui dopo cena si prendeva la macchina e si partiva, ma mica per andare lontano, magari si girava cento volte intorno ai viali di Bologna, si entrava in qualche bar, si parlava, oppure ci faceva ascoltare i pezzi del disco nuovo a cui stava lavorando. Io poi all’epoca ero abbastanza presuntuoso, per cui ogni tanto gli dicevo robe tipo: “No, ma qui l’accordo non va bene”, e lui giustamente s’incazzava tantissimo. Rispondeva: “Ma no, l’ho scritta io! Tu che vuoi?”

Però c’era un rapporto di confidenza vero, certe cose potevi permetterti di dirgliele.
Be’, le persone come Dalla sono circondate da yes-men, e quando trovano qualcuno che dice quello che pensa all’inizio un po’ si offendono, più che altro perché non sono abituati. Poi tieni conto che Dalla era tutt’altro che una persona umile! Sapeva di essere un genio, ed era anche perfettamente consapevole del suo posto nella musica pop. Ogni tanto gli dicevo: “Basta con queste robe, con questi Caruso, facciamo un disco funk!”, e lui ammiccava, perché era il primo a stufarsi dei cliché. Poi però giravamo per Bologna, e c’erano tutte queste signore che lo fermavano, che se lo abbracciavano, e lui mi diceva: “Lo vedi qual è il mio pubblico, la mia fanbase? Io mica posso farlo, un disco di elettronica…”.

Ma “Washington”, a modo suo…
Sì, “Viaggi organizzati” del 1984, ma lì era la produzione di Mauro Malavasi.

Verrebbe da chiederti, a questo punto, come si passa in pochi anni dal frequentare uno dei santi protettori del pop italiano “vero” a un progetto come Cristalli Liquidi, che di fatto è un’operazione molto raffinata ma anche molto enigmatica, su delle zone tra l’altro abbastanza limitrofe del pop italiano.
Fra l’altro la musica italiana per me è stata una scoperta recente: Battiato ho iniziato a sentirlo tre o quattro anni fa, per dire. Avevo una sorta di pregiudizio: ero convinto non mi piacesse.

E poi, invece?
Era un momento un po’ così: volevo staccarmi dalla musica elettronica da club, che se ci pensi da vent’anni a oggi non è che sia cambiata molto. Credo fosse il 2010, stavo facendo un breve tour come dj in Australia, e una radio mi ha chiesto di coprire un’ora di programma, così ho deciso di preparare al volo un paio di edit di pop italiano: cose tipo “Terra promessa” di Eros Ramazzotti, “Self Control” di Raf, Valerie Dore… Erano edit molto grezzi, fatti sul laptop, in hotel, aspettando che mi venissero a prendere per andare alla radio. Quel tipo di cose che, se le avessi suonate in Italia, non me l’avrebbero mai perdonato: “Ma tanto qui sono in Australia”, mi sono detto, “chi vuoi che se ne accorga”? In realtà se ne sono accorti in molti: l’edit di “Terra promessa” è in assoluto il mio pezzo più ascoltato su SoundCloud…

Ah!
Poi ci sono stati “E adesso la pubblicità” di Claudio Baglioni, e l’edit psycho dub di “Voglio andare a vivere in campagna” di Toto Cutugno. L’intento era sempre lo stesso: volevo fare una cosa ironica, che “sabotasse” sia l’approccio serioso dei dj del giro disco-edit, sia la cattedrale del pop italiano. Invece finiva sempre che i commenti erano del tipo: “Ma guarda che bel recupero, ma senti che arrangiamenti raffinati ’sto pezzo”.

Perché erano cose che si muovevano su quella sottilissima linea che separa il ripescaggio colto dal trash…
Difatti erano più “camp” che trash.

Con Cristalli liquidi recuperi il Lucio Battisti di una fase controversa e comunemente considerata “meno nobile” della sua produzione: il suo ultimissimo album, “Hegel”, del 1994.
Ma lì è perché c’era Pasquale Panella, che io considero un genio assoluto…

Torniamo però un attimo al “trash”: a un certo punto tu hai fatto pure una cover della sigla finale italiana di “Atlas Ufo Robot”.
Sì, “Shooting Star”. Quella la registrammo insieme a Rodion. Bear Funk o forse Nang, insomma, una delle etichette inglesi con cui collaboravo all’epoca, mi chiese un pezzo per una loro compilation di sigle televisive rivisitate. Io mi entusiasmai talmente al progetto che registrai “Shooting Star” e anche una versione della sigla della prima stagione di “Visitors”.

“Theme from V”?
Altro pezzo pazzesco: l’autore era Barry De Vorzon, quello della colonna sonora de “I guerrieri della notte”, della sigla di “S.W.A.T.”.

Ma “Shooting Star” l’hai scelta perché eri un fan delle serie tv giapponesi, o perché eri un fan di Vince Tempera e Ares Tavolazzi?
Perché mi piaceva il pezzo! Era strepitoso, si prestava tantissimo a essere trasformato in una roba cosmic. C’era Tavolazzi che faceva delle cose incredibili col fretless. E poi, se pensi che era la sigla per un programma tv per bambini…

Voi di vostro avete aggiunto quel crescendo finale alla “Praise You” di Fatboy Slim. Che anno era, il 2000?
No, molto dopo, mi pare il 2008. L’inglese del testo originale era tragicamente maccheronico, e in studio avevamo quasi lo scrupolo di correggerlo, ma alla fine invece no: abbiamo lasciato tutti gli avverbi sbagliati e gli articoli mancanti, in perfetto stile italo disco.

La voce era la tua?
Sì, forse ha cantato qualcosa anche Rodion: comunque irriconoscibili per via del vocoder. All’epoca non ci pensavo neanche lontanamente a cantare.

Quello era anche il periodo in cui è uscito il tuo primo album, mi pare.
Sì, “Horror Disco”, il primo album come Bottin. Che poi in realtà era il secondo, perché nel 2004 avevo pubblicato “I Love Me vol. 1”, quello dove c’era “Lunedì cinema”. Ma diciamo che questo era il primo vero album.

Che, già a partire dal titolo, rimandava a un altro grande topos della musica pop italiana anni ’70, le colonne sonore dei film di serie B.
Infatti in quel periodo ero in fissa proprio con le colonne sonore dei film horror, e in più avevo scoperto i Tantra di Celso Valli, Macho (cioè Mauro Malavasi), Easy Going, le produzioni di Claudio Simonetti…

Tutte cose (anche quelle più orientate al dancefloor) in cui c’era sempre una forte componente cinematografica.
Certo, pensa solo a “Fear” degli Easy Going, del 1979, che è una sceneggiatura horror a tutti gli effetti, con sotto i violini disco. Il testo è allucinante, sembra davvero una scena di uno di quei film horror splatter mezzi erotici che andavano di moda allora, tipo “Buio Omega” di Joe D’Amato.

E come in tutti i dischi degli Easy Going, c’era pure un forte sottotesto gay.
Perché l’Easy Going era un locale gay di Roma, infatti la canzone racconta quella che di fatto è una violenza sessuale gay nei confronti di un eterosessuale, al quale però alla fine la cosa sembra non dispiacere più di tanto.
La band era straordinaria, specialmente Douglas Meakin, il cantante dei loro primi due album. Meakin era un inglese sbarcato a Firenze durante la stagione dei capelloni: ha avuto diverse band all’epoca del beat, poi gli Easy Going, e subito dopo con i Superobots e i Rocking Horse avrebbe cantato alcune tra le più famose sigle italiane dei cartoni animati, da “Candy Candy” a “Babil Junior”, praticamente tutte quelle in cui senti una voce dall’inflessione inglese tipo Mal dei Primitives. Sono riuscito a rintracciarlo proprio mentre registravo “Horror Disco”, grazie a una cover band di sigle di cartoni animati, e gli ho chiesto di cantare in “Disco for the Devil”, di cui ha scritto anche il testo.

E com’è andata?
Gli ho mandato la base, che era una cosa un po’ alla Paul Parker (in quel periodo ascoltavo molto le produzioni di Patrick Cowley) e gli ho detto: “Va bene qualsiasi cosa, basta che il titolo del pezzo sia “Disco for the Devil””. Quindi lui è venuto a Venezia e abbiamo registrato il cantato, non in studio anche perché all’epoca avevo ancora tutte le macchine accrocchiate dentro la camera da letto. La sua bravura è impressionante: lo capisci subito che è uno che ha passato tutta la vita negli studi di registrazione: erano tutti take buona-la-prima, perfetti. E poi fa morire dal ridere che la voce dentro “Fear” degli Easy Going fosse la stessa che cantava “Candy, oh Candy”…

Insomma, è il 2008: tu inizi a suonare sempre più spesso all’estero come dj, incidi dischi per Bear Funk, per Eskimo…
…e per la newyorkese Italians Do It Better, l’etichetta di Johnny Jewel e Mike Simonetti. Per loro ho inciso quello che è forse il mio singolo di maggior successo, “No Static”. È stata l’unica volta che amici in vacanza a Londra o a Ibiza mi scrivevano dicendo: “Oh, sono in un club e stanno suonando il tuo pezzo!”

Per Italians Do It Better nel 2009 è uscito anche il famoso 12” di Solange, “Robots Are Un-American”, che è un’altra mezza burla delle tue.
Dopo il successo di “No Static” Johnny e Mike mi chiesero se avevo altri pezzi pronti da pubblicare con loro, e c’era questo “Robots Are Un-American” che avevo registrato per la colonna sonora di un piccolo film indipendente USA, “The Boy with the Sun in His Eyes”. Pensa che il regista del film, Todd Verow, l’ho conosciuto su mp3.com, una piattaforma che se ti ricordi era una specie di antesignana di Bandcamp. Lui stava girando questo film dove la protagonista, ispirata alla figura di Geretta Geretta, l’attrice afroamericana che fa la zombie in “Demoni” di Lamberto Bava, era una ex-cantante disco di successo negli anni ’80, quindi gli serviva un pezzo disco anni ’80 per la colonna sonora. Il testo l’aveva già scritto lo sceneggiatore, a me chiesero di realizzare la musica, ed è così che venne fuori “Robots Are Un-American”. Da lì mi venne l’idea di costruirci attorno un falso storico, nel senso che al di fuori della finzione del film il disco ovviamente non esisteva, né tantomeno era veramente esistito negli anni ’80, ma noi disegnammo una finta etichetta de Il Discotto (leggendaria etichetta disco italiana primi anni ’80, ndr), la appiccicammo sopra un vinile e lo fotografammo.

E poi?
Poi mi sono accorto che la discografia della Discotto saltava un numero di catalogo, mi pare il 15, per cui inserimmo Solange in quel buco di catalogo su Discogs, e la cosa incredibile è che il finto disco ci rimase per un anno intero! Con i collezionisti che impazzivano perché non riuscivano a trovare questo fantomatico disco-mix prodotto nel 1984 da “Tinto B” (anagramma di Bottin…) e cantato da Solange. Finché Italians Do It Better non fece uscire un 12” dicendo che era la ristampa di quel famoso introvabile disco, di cui Bottin aveva miracolosamente recuperato una copia negli studi di una piccola radio privata a Padova. A quel punto la burla era praticamente dichiarata, ma un sacco di gente si è arrabbiata lo stesso.

Di fatto nessuno è stato truffato, non è che abbiate venduto delle copie pirata o lucrato su un falso.
No, però il mondo dei collezionisti è fatto così. Si sono sentiti presi in giro, specie dopo che Discogs ha giustamente cancellato la falsa entry del numero di catalogo. Che poi, se proprio vuoi, un orecchio un minimo allenato poteva capire da subito che quel pezzo non era stato registrato nel 1984.

Comunque: non contento di ciò, qualche anno dopo hai rifatto una cosa simile con Cristalli Liquidi.
Esatto. Era il 2011, e io avevo iniziato a suonare a Ibiza, in una piccola sala dello Space, la “Red Box”.

Piccola nel senso di 100 persone?
Veramente piccola, ma con un ottimo impianto, e soprattutto potevi suonarci tutto quello che volevi. Il dj resident era in fissa con “You Wanted a Hit” degli LCD Soundsystem, ed è sentendola lì che mi è venuta in mente l’idea di costruire un altro falso storico. Ho immaginato che gli LCD avessero fatto la cover di un classico sconosciuto della italo disco, per cui ho fatto l’operazione inversa: ho tradotto il pezzo in italiano (in realtà soltanto i primi due versi sono tradotti letteralmente) e ho costruito una base che sembrasse un pezzo pop italiano metà anni ’80, “Volevi una hit”. Poi ho disegnato un’etichetta col logo Disco Tragic che plagiava quello della Disco Magic, ho aggiunto un finto timbro SIAE di quelli che si usavano negli anni ’80 e, insomma, abbiamo stampato il 12” in Olanda.

Ho letto che avevi proposto a Simonetti di farlo uscire per Italians Do It Better, ma che lui ha avuto paura della possibile reazione di James Murphy.
Sì, Mike mi disse: “Sai, qui in America gli avvocati si attaccano a tutto”. Paradossalmente, qualche tempo dopo fu James Murphy stesso (totalmente all’oscuro di tutto) a scrivermi per chiedermi dei miei brani per il suo dj set, al che gli mandai anche “Volevi una hit”. Lo trovò meraviglioso!

Mi sembra ovvio che il progetto Cristalli Liquidi per te era un semplice one-off, al punto che lo stesso nome della “band” era una cover del nome degli LCD Soundsystem. Tra l’altro ricordo che all’epoca mi colpì molto il fatto che “Volevi una hit” tu l’avessi cantata in un modo che poteva ricordare lo Scialpi degli esordi, un modo sopra le righe e “sbagliato”, che però funzionava proprio per quella sorta di sovraccarico emotivo…
Assolutamente! Scialpi era in televisione quando io ero alle elementari, per cui “Rocking Rolling” e “No East, No West” me le ricordo bene. Però non era Scialpi il modello che avevo in mente per il cantato, forse più il primo Eros Ramazzotti. Poi sì, ho aggiunto quel coretto “uo-uo, uòuò” che forse un po’ Scialpi lo era. Ma l’obiettivo era fare una cosa che suonasse male: cioè, che suonasse bene nel suo suonare male. E, in generale, la regola dietro Cristalli Liquidi era che i pezzi dovessero essere registrati e terminati entro le 24 ore, un giorno di lavoro al massimo.

Il secondo pezzo che hai coverizzato era “Canzone Registrata” di Adriano Pappalardo, nel 2013. Pure qui una scelta molto raffinata, perché di Pappalardo tutti ricordano le robe trash, cantate a pieni polmoni. Tu invece hai pescato il suo oscurissimo album elettronico del 1983, “Oh! Era ora, dove tra l’altro alle tastiere c’era…
…c’era Lucio Battisti, esatto. E i testi sono quasi tutti di Pasquale Panella, che credo Battisti conobbe proprio in quell’occasione. Infatti io a quel pezzo ci sono arrivato proprio ricostruendo la storia della loro collaborazione. Quando ho iniziato ad ascoltare seriamente Battisti, ho capito subito che i dischi del suo ultimo periodo erano quelli che musicalmente mi interessavano di meno a causa degli arrangiamenti invecchiati malissimo, mentre ero completamente rapito dai testi, per cui ho iniziato a cercare tutto quello che aveva fatto Panella. Quando ho sentito “Caroline e l’uomo nero (Canzone registrata)” ho subito detto “uhmm”, perché fra l’altro il tema stesso della canzone non era così distante da “Volevi una hit”.

Quella cosa dei “dischi dell’anno scorso”?
Esatto, “Che fine hanno fatto / i dischi dell’altro anno?”. Dopo ancora, ho deciso di rifare “Incubo assoluto” degli Stadio. Anche qui un pezzo tutt’altro che conosciuto: testo di Freak Antoni, chitarroni quasi glam, molto poco italiano. Ecco: se vogliamo trovare un filo conduttore nei pezzi coverizzati da Cristalli Liquidi, direi che sono pezzi di cui non si capisce esattamente la provenienza, la datazione. Non sono quel genere di pezzi che per il suono, o per le cose che dicono, identificano subito un’epoca. Sono pezzi “new wave”, pur non rientrando nei canoni della new wave.

Be’, gli Stadio decisamente no.
Non erano new wave nel senso etimologico, ma erano attenti a quello che succedeva, chiaramente ascoltavano molto più di quello che poi si sentiva dai loro dischi. Qui però sono di parte: a me i loro primi album piacciono molto. Erano power-pop se pensi agli Stadio del Festivalbar, quelli di “Generazione di fenomeni”, ma già se ascolti quelli della colonna sonora di “Acqua e sapone”…

Lì coi tastieroni si era quasi in territori chillwave, in effetti.
Il loro non è mai stato il classico suono pop italiano, quello dei Cocciante e dei Baglioni. Non erano difficili, ma non erano nemmeno banali, Prendi il loro terzo album, “Canzoni alla radio” del 1986, che poi è anche quello dove c’era “Incubo assoluto”: dentro c’è questo pezzo, “Giacche senza vento”, che al di là del titolo, bellissimo, è praticamente la versione italiana di “Steppin’ Out” di Joe Jackson.

Fin qui Cristalli Liquidi eri sempre tu, da solo, strumenti e voce?
Sì, ma più o meno è stato sempre così in tutto ciò che ho fatto da quando mi sono comprato il primo campionatore, soprattutto per una questione caratteriale: io sono piuttosto efficiente e preciso, voglio arrivare velocemente al risultato. La dimensione della band in cui devi tener conto delle esigenze di tutti, combinare gli orari per la sala prove, un po’ la soffro. A me piace applicarmi, studiare: due mesi di prove per fare una serata in un pub mi è sempre sembrato uno spreco di tempo.

Ma il fatto di cantare è stato una roba di praticità oppure un’esigenza, come dire, “spirituale”?
Ma no, non avevo nessuno che cantasse, per cui a un certo punto ho deciso di provare. Ovviamente non ho una gran voce, ma va bene per le cose che faccio che non prevedono virtuosismi, ma un cantato molto monotono, quasi declamassi le parole dentro un megafono più che al microfono.

In effetti, c’è sempre qualcosa di marziale.
Che va benissimo, perché da un lato circoscrive tutto dentro un territorio in cui non si notano quei limiti vocali che obiettivamente ci sono, e dall’altro sposta l’attenzione sul testo, che per me è importante quanto il resto.

Una dichiarazione molto da cantautore.
Sì e no, perché poi a me va bene anche il testo che non significa nulla, dadaista, insondabile. Alla Pasquale Panella, appunto, dove spesso a vincere su tutto è il piacere del pronunciare la parola “pura”.

Poi a un certo punto te ne esci con “Questa insostenibile leggerezza dell’essere” di Antonello Venditti, che è una scelta decisamente meno oscura delle altre, e riprende anzi un momento estremamente trionfale del pop italiano metà anni ’90.
Per i 20/30enni di oggi non so quanto quella di Venditti sia ancora effettivamente percepita come “hit”, però sì: volevo vedere che sarebbe successo ad applicare il trattamento Cristalli Liquidi a un pezzo un po’ meno oscuro. Fra l’altro il testo di Venditti suonava quasi contemporaneo per come incasella gli hipster del 1986 nei loro tic e consumi: Milan Kundera, la Repubblica, il Foro Italico, gli amori un po’ così. Avevo già scelto questo pezzo quando un giorno mi è arrivato un demo di certi miei amici catanesi, i Polosid, dove incredibilmente c’era una loro versione electro, quasi minimale, di quel brano, ma cantato in francese. Insomma, mi sono fatto mandare la loro base, ho fatto un paio di piccolissime modifiche, ho ricantato il pezzo in italiano, ed ecco: pronta in meno di 24 ore, come da regola dei Cristalli Liquidi.

È interessante, perché la versione tua/vostra è come se “tenesse a bada” la carica pop del pezzo originale.
Lo so, da un lato lo considero un fallimento, per quanto nobile, perché nella nostra versione quella che era una hit pop è diventato un pezzo con “qualcosa” di pop, ma in una cornice che per l’ascoltatore standard ha un che di inquietante, di sbagliato, anche se probabilmente lui nemmeno capisce di cosa si tratti.

Però come triangolazione è interessante: pop “sbagliato”, come il Negroni con l’ingrediente che in teoria non ci andrebbe.
Ma è il tipo di cosa che quando la senti negli altri la noti eccome, ed è fastidiosa. Pensa a certi vecchi cantanti anni ’80, quando cercano di risalire la china facendo il pezzo che “suoni” contemporaneo.

Vabbé, ma quello è un altro discorso. Diciamo che uno dei fili conduttori di Cristalli Liquidi è comunque la profondità. Arriverei a parlare di gravitas: nell’esposizione, nel suono, forse anche negli accordi.
Sì, sì, ma soprattutto c’è sempre dell’ironia e il gusto, o il gioco, di dire delle cose semplici in maniera complicata.

Il che ci riporta a Pasquale Panella, guarda caso. Con Panella a un certo punto vi siete sentiti, vero?
Siamo sporadicamente in contatto. Gli ho mandato la mia versione di “Canzone registrata”, e poi, forte dei complimenti ricevuti, gli ho mandato anche “Sciame”, che è la prima canzone di cui ho scritto anche il testo. Lui mi ha risposto con una lettera lunghissima.

Una lettera di carta, immagino.
(ride) No, in realtà era un’email. Anzi, un messaggio su Facebook! Lui all’epoca aveva un profilo su Facebook sotto falso nome, cosa che avevo scoperto un po’ per caso e un po’ facendo il detective tra varie fan page.

E che ti ha detto, in sintesi?
Mi ha detto cose tipo “vai avanti con la ricerca”, “non cercare il consenso”, ma in realtà provare a riassumerla è inutile, perché nel suo caso la forma vale quanto il contenuto, se non di più.

Da quello che dici, sembrerebbe ti abbia responsabilizzato rispetto a quello che avresti fatto da allora in avanti come artista.
Ha minato certe mie sicurezze, ma al tempo stesso ha risolto certe altre insicurezze che mi portavo dietro da sempre. È strano, perché pur senza conoscermi ha centrato un paio di cose molto “mie”.

E tu, per ricambiare, hai fatto la cover di “Tubinga”.
La cosa è iniziata quando un’etichetta di Firenze ha chiesto a me e Alexander Robotnick di partecipare a una compilation-tributo a Lucio Battisti, e noi abbiamo registrato “Fatti un pianto” (da “Don Giovanni”) e “Tubinga” dal suo ultimo album, “Hegel”.

Sperando che la vedova non si arrabbi.
Guarda, io sono totalmente dalla parte della Veronesi, che ha solo deciso di far rispettare quelle che erano le volontà del marito. Quelli che si stracciano le vesti  sulla storia di Battisti prigioniero della vedova cattiva non hanno capito nulla: la sua musica c’è, i dischi ci sono, vengono ristampati, si trovano.

Casomai il vero dramma è quell’orrore di copertina che hanno fatto per il cofanetto dei remaster che è uscito adesso.
Quell’operazione lì è allucinante. Il primo cofanetto dei cinque dischi bianchi era fantastico, lì a dire il vero la cosa l’aveva seguita un po’ anche Panella, ma questa operazione dei nastri rimasterizzati è proprio un’operazione sbagliata concettualmente, perché travisa l’intenzione originale del suono. Se Battisti in certi pezzi aveva deciso di seppellire la sua voce, perché devi tirarla fuori o farla sentire di più? No, è un’operazione scellerata messa in piedi unicamente per spremere ancora un po’ di più il limone.

Com’è che tu e Robotnick avete scelto “Tubinga”?
“Hegel” non è un album particolarmente amato dai battistiani: di certo nessuno tra loro lo considera il migliore tra i dischi dell’ultimo periodo. A me piace forse perché è quello più delirante come testi: c’è un pezzo che sembra “La Bamba”.

È anche un Battisti molto rigido, poco funky.
Ma quello è un problema di suoni invecchiati male, che poi se vuoi è un paradosso: senti certe produzioni house di Ron Hardy, i cui suoni sono invecchiati malissimo, eppure a riascoltarli oggi quei dischi ci sembrano il perfetto specchio di un’epoca. Perché?

Secondo me perché erano produzioni meno ambiziose, si accontentavano di essere funzionali alla pista da ballo, e non si vergognavano dei propri limiti.
Esatto, perché rispecchiavano la sottocultura dei club e perché era musica che nasceva povera, fatta da musicisti poveri per gente senza un soldo che infatti andava a ballare in locali che erano l’antitesi del glamour. Il problema è quando hai suoni poveri in produzioni che vorrebbero essere il top di gamma. Che poi non è neanche questo il problema di “Hegel”, perché i suoni che senti lì sopra erano comunque i più costosi che si potessero ottenere allora, il disco lo avevano registrato in Inghilterra, con un produttore inglese.

Quindi?
Ron Hardy era l’espressione dell’underground; “Hegel” era un alieno, un disco senza un mondo alle spalle che gli fornisse una validazione culturale. In questo senso, il lavoro che abbiamo fatto io e Robotnick su “Tubinga” è quasi quella di costruirgli un terreno dietro, dei riferimenti (nel nostro caso all’acid-house) in cui l’ascoltatore possa collocarlo. Non è un pezzo acid tout-court: per esempio, è cantato dall’inizio alla fine, e questo lo discosta dai canoni acid. Però riconosci il suono della 303, della batteria.

Per chiudere il cerchio; adesso ti toccherà mettere insieme una band e andare in giro a fare pezzi in italiano sul palco. Ti preoccupa cantare in pubblico?
Qualche settimana fa in un locale qui a Venezia c’era una serata tributo a Battisti aperta al pubblico, e alla fine, visto che avevano in repertorio anche il periodo di Panella, sono salito e ho cantato “Cosa succederà alla ragazza” accompagnato da una cover band. Così, per mettermi alla prova.

E come è andata?
Benino, dai. Non ho avuto troppa paura, per cui sì: penso di poterlo fare.

Se penso a un live dei Cristalli Liquidi, immagino una cosa molto triste, totalmente da tivù anni ’80: tu da solo su un piccolo palco con la tasterina e le basi…
Ti ringrazio, e in effetti è una possibilità, anche se sinceramente preferirei avere almeno un’altra persona sul palco.

Ma la band ideale per te sarebbe tipo un trio? Tu voce e tastiere, un bassista e un chitarrista?
No, a me piacerebbe cantare e basta. Al massimo cantare e suonare la chitarra. Le tastiere non servono, bastano le basi. Invece vorrei un batterista. Ah, sai che paragone è venuto fuori con i Cristalli Liquidi, proprio mentre si chiacchierava con dei promoter circa un possibile live? I Righeira…

Cavolo, fa un po’ paura a sentirlo dire, però capisco il punto, e non è assolutamente una brutta cosa se superi lo choc iniziale del paragone.
Sì, al di là delle hit da spiaggia che conoscono tutti, loro avevano pure pezzi come “Balla Marinetti”.

Dentro gli album ci sono sepolti dei pezzi totalmente dimenticati, anzi, probabilmente mai ascoltati, che sono oggettivamente molto strani, molto storti e interessanti.
Sì, però…

Però tu volevi essere Celso Valli. Il Celso Valli periodo “Nell’aria” di Marcella Bella.
Ma pure periodo Tantra, quando programmava l’arpeggiatore e ci schiaffava sopra l’orchestra a fare le scale indiane… comunque no, non è che volevo essere Celso Valli, figurati, però c’è stato un momento, pochi anni fa, in cui qualsiasi cosa facessi o mi succedesse, c’era sempre, invariabilmente qualcosa che mi rimandava a Celso Valli.

Idea! Hai controllato se gli altri Tantra, a parte Celso Valli, siano per caso ancora in circolazione? Potresti mettere in piedi il super-gruppo disco transgenerazionale definitivo.
Purtroppo erano un progetto di studio del solo Celso Valli, un po’ come Cristalli Liquidi, ma grazie per il consiglio.ù

OFF TOPIC MAGAZINE (Simone Nicastro, 2018)

Il 2018 musicale italiano è iniziato per il sottoscritto molto bene grazie ad un’opera folgorante, anche se a dirla tutta l’album in questione è stato pubblicato a dicembre dell’anno scorso, dopo una gestazione lunga e decisamente singolare: Cristalli Liquidi è il side project di Guglielmo Bottin, produttore e dj veneziano, che ha deciso circa cinque anni addietro di diversificare la sua attività artistica con un progetto ispirato alla italo disco degli anni 80. Tra cover “creative”, 45 giri inventati e retrodatati, nuove composizioni ed una estetica inconfondibile, il progetto Cristalli Liquidi sta uscendo ora dal cono d’ombra carbonaio di una elettronica retrò rivolta ai club più caratteristici per addentrarsi in strade più ampie intercettando così, si spera, un pubblico numericamente superiore e trasversale.
L’album è una esperienza allo stesso tempo antica e attuale: ogni canzone è realizzata con precisione millimetrica su un sound vintage ma mai come oggi moderno e alternativo, in diretta concorrenza con molto pop elettronico odierno, ispirato ai medesimi anni, ma con risultati spesso innocui e troppo semplificati. Le aperture melodiche per Bottin esistono solo dove sono indispensabili e non per rincorrere il facile ritornello/tormentone, le tastiere creano la reale spina dorsale dei pezzi e non sono miseri orpelli d’abbellimento modaiolo, le pulsioni ritmiche sono imprescindibili e incalzanti lasciando ben poco spazio a sentimentalismi da spot tv (o da “tubo”).

Poi ci sono i testi ricchi di citazioni, omaggi, pensieri associativi e narrazioni sublimi che come nei migliori puzzle, una volta che ogni pezzo si è incastrato alla perfezione, si rivela in tutta la sua pienezza e fascino.
“Volevi Una Hit” (revisione del brano omonimo degli Lcd Soundsystem) è uno dei migliori start possibili per un album di questa caratura che plasma l’originale in un synth pop leggermente meno aggressivo e incredibilmente ammaliante (per completezza di informazione James Murphy ha apprezzato). E la hit auspicata arriva già al secondo capitolo in scaletta, scelta difatti per un primo videoclip promozionale: “Questa Insostenibile Leggerezza Dell’Essere” si insinua nel cervello come una “kraftwerkiana” filastrocca tra ossessioni meta letterarie e implicazioni amorose.
“Canzone registrata” invece è un’altra riuscita cover (questa volta a tutti gli effetti) del bellissimo brano “Caroline e l’Uomo Nero” di Adriano Pappalardo (scritto da Pannella e musicato da Battisti) con un arrangiamentomeno barocco e un fascino istantaneo; si prosegue con un altro rifacimento, questa volta decisamente più radicale, di un brano degli Stadio (testo di Freak Antoni), “Incubo Assoluto”, in cui all’attitudine pop rock della band bolognese si è preferito una base calda e raffinatamente disco-music. Neanche a dirlo bellissima anche questa.

L’italo disco invece più “meccanica”(Ah! L’avvenire immaginato di quel decennio) si riassapora con la nostalgica “Restare Andare” che trova la sua forza nella contrapposizione tra le parole spezzate nelle strofe e lapotenza melodica del ritornello cantato, quest’ultimo innalzato anche da una tastiera nobilmente minimale; il periodo bianco di Battisti/Pannella è sicuramente un “asset” importante per Bottin che si cimenta nella loro “Tubinga”, tratta da quella meraviglia che è “Hegel”, facendosi aiutare da Alexander Robotnick e trasportandola in ambiti quasi techno; anche la successiva “Sciame” (inedita e sempre con Robotnick) veleggia su un arrangiamento dance rigoroso completandosi nella pienezza di una voce da crooner futurista.
In chiusura Bottin lascia spazio a due brani inediti in cui le basi, una più cadenzata e l’altra più eterea, supportano una poetica testuale ricca e originale, rallentando l’essenza ballabile per una maggiore ricercatezza cantautorale.
Cristalli Liquidi riporta sulla scena discografica italiana un modo di fare musica che, nonostante sia stato sempre bistratto dai soliti noti della critica d’antan (e non mi riferisco solamente all’età), non solo ha regalato in passato all’Italia un posto rilevante a livello di musica internazionale mai più replicato, almeno fino ad oggi, ma che, se scritto e prodotto con questa qualità, merita per me il più roseo dei futuri.

DJ MAG (Giorgio Valletta, 2014)

Dopo ‘Horror Disco’, anche il tuo nuovo album è attraversato da un concept, introdotto dallo stesso titolo ‘Punica Fides’: vuoi raccontarcene il senso? Punica Fides significa letteralmente “fedeltà cartaginese”. E’ un’espressione latina che indica una fedeltà molto sospetta (se non vero e proprio  tradimento), vista l’opinione che i Romani avevano dei Cartaginesi, considerati ingannatori tutt’altro che degni di fiducia. Il tema dell’album è appunto la persuasione, la manipolazione e quell’inganno a cui si cede senza quasi opporre resistenza, come ad esempio avviene nella propaganda ma anche nella seduzione e nell’arte.

La manipolazione, l'”inganno” come forma d’arte: arriveresti a dire che il dj e produttore di musica elettronica è un po’ come un prestigiatore o illusionista? In letteratura si parla di patto narrativo tra lettore e scrittore. Questo può avvenire certamente anche in musica, soprattutto nell’ambito della musica elettronica da ballo in cui l’ascoltatore sa già cosa succederà prima o poi, perché ci sono dei meccanismi ormai assodati che rendono un brano efficace per il dancefloor. L’ascoltatore quindi un po’ sa già cosa aspettarsi, ma vuole essere illuso di partire per un nuovo viaggio musicale, una registrazione  “inaudita” che però contiene (e si spera talvolta superi) molti stilemi della musica dance che l’hanno preceduta. In questo senso alla musica, per essere detta interessante o di qualità, viene richiesto di essere autentica, non furbesca, non commerciale. Al tempo stesso queste qualità vengono ormai ricondotte ed elementi di freschezza che appartengono a dischi del passato: la prima house, la prima techno, l’italo disco più underground e via dicendo. La freschezza quindi è un elemento riconducibile alla nostalgia, ad un’infanzia aurale in cui produttori e ascoltatori non erano ancora saggi e smaliziati per non dire cinici. Nel disco ho provato a portare la mia personale ricerca di autenticità verso un falso storico più o meno consapevole, in cui elementi di diversi generi (passati, presenti e forse anche futuri) coesistono, intrecciati in forme leggere, parodistiche, non seriose. Cito Panella: “L’arte non è seria. È serio chi la legge, chi la guarda, chi l’ascolta, ma chi la fa no… Ci mette un po’ di tecnica e molta cialtroneria”.

Oltre a un collaboratore abituale come Rodion, il nome che spicca nei “featuring” della scaletta dell’album è ovviamente quello di Steve Strange. Puoi raccontarci come è nato il contatto? Ed eri un fan dei Visage e del movimento new romantic? Qualche anno fa ho prodotto con Justus Köhncke e Rusty Egan dei Visage brano per Blitz Club, l’etichetta dei Visage. Mi è stato poi chiesto di scrivere dei brani per il loro nuovo disco; purtroppo però sono non sono mai stati registrati per un mancato accordo tra gli editori. Poco tempo dopo Blitz Club mi ha inviato dei provini e dei nuovi frammenti vocali dei Visage. Tra questi ce n’era uno che è diventato la strofa di Poison Within. La musica invece era un mio demo strumentale che grazie al vocal di Steve Strange sono riuscito a trasformare in una canzone vera e propria.Certamente da bambino ero un inconsapevole estimatore del movimento new romantic, ne ignoravo l’estetica ma restavo incantato dalla musica. Il primo LP che ho comprato è Arena dei Duran Duran. Avevo 7 anni.

Il momento di buona visibilità e appeal del suono italo-disco e cosmic sembra continuare ormai da molti anni, anche grazie a una fitta rete di dj/produttori internazionali. Pensi che si tratti di un fenomeno che va oltre la solita successione di mode e tendenze? Credo che non passi di moda per il semplice fatto che è non mai davvero di moda. Non è un fenomeno di tendenza, non ha mai avuto un particolare successo o una grande visibilità. E’ una scena fatta di un sottobosco internazionale, non legato ad una città particolare e che coinvolge produttori e estimatori dal gusto eclettico. Il dj cosmic-disco, come ci ha insegnato Daniele Baldelli, suona di tutto, dall’ambient allo zouk. E’ un suono non datato in quanto non databile.

Nella tua discografia ormai sterminata (fra release ufficiali e non, inclusi i re-edit) trovano posto anche moltissimi omaggi ad artisti a volte trascurati o snobbati della musica italiana degli anni ’70/’80: ad esempio, non dimenticherò mai il mio stupore per il lavoro che avevi fatto su un brano di Heather Parisi. Come nasce l’ispirazione, la scintilla che ti porta a cimentarti con imprese sulla carta impossibili, o come minimo rischiose? La scintilla è il riconoscere all’interno di una canzone leggera, una canzonetta lisa dai continui lavaggi radiotelevisivi, una componente musicale interessante. I re-work che ho fatto di Toto Cutugno, Morandi, Ramazzotti, Raf, Baglioni sono puro divertimento estemporeaneo che però punta a svelare una qualità in quegli arrangiamenti, la profondità del suono. “Tu non sai che peso ha questa musica leggera” cantava Morandi e questi stessi brani leggerissimi, triti e ritriti, tagliati e ricuciti in un certo modo possono funzionare anche nei club più underground.

Cosa ci puoi dire del progetto Cristalli Liquidi: si è esaurito o è soltanto in pausa e destinato a proseguire?
Continua lento ma inesorabile: è appena uscito il terzo singolo Incubo Assoluto, tiratura limitata su vinile multicolor per l’etichetta olandese Artifact distribuita da Clone.

Per chiudere, la domanda di prammatica: cosa c’è nell’agenda per i tuoi mesi estivi?
Sono appena tornato dagli Stati Uniti dove ho avuto il privilegio di suonare al Moog Fest insieme ai miei artisti preferiti e mostri sacri come i Kraftwerk e gli Chic. Poi a New York e, per la prima volta, a Detroit in cui ho poi passato qualche giornata tra reminiscenze Motown e visita al quartier generale di Underground Resistence, un’esperienza meravigliosa e di comunanza tra musicisti apparentemente lontani. Prossimamente andrò in Cina, Korea, Vietnam, Messico, Colombia, Grecia, Brasile, Israele… sarà un’estate movimentata.

STORIADELLAMUSICA.IT (Carlo Affatigato)

Guglielmo “William” Bottin è un personaggio estremamente interessante: è rapidamente diventato uno degli esponenti di spicco della scena elettronica italiana. Riceve fin da subito importanti attestati di stima dagli artisti che incrociano la sua strada. Il suo primo album (I Love Me Vol. I, 2004) è un bell’esempio di chill-out e vanta la collaborazione eccellente di Lucio Dalla, che presta la sua voce in un brano. Lo stesso Dalla dirà di lui: “è un bel libro che non hai ancora letto”. Questo 2010 lo vede sotto contratto con l’etichetta Eskimo Recordings, a testimonianza del fatto che il suo inizia a diventare un nome importante anche a livello internazionale.

Horror Disco invece è il suo secondo album, una splendida dimostrazione del carattere eclettico di questo artista. Trattasi di una colata rovente di electro vivace e pregna di groove, arricchita da una movimentata scarica di elementi italo-disco. Ma l’aspetto più intrigante è dichiarato fin dal titolo: l’album è una personale rivisitazione delle colonne sonore horror/thriller del cinema italiano.

Un’operazione che riesce alla grande: Horror Disco è ricolmo di brani coinvolgenti e atmosfere dannatamente evocative. La tracklist è generosa, perfettamente compatta e senza alcun momento di calo. Attraverso ispiratissime geometrie disco, Bottin fa rivivere in musica il mito dei cult dell’horror italiano, tra misteriose indagini, cripte buie e gocciolanti e precipitosi inseguimenti. William gioca le sue carte con furbizia, estraendo dall’album due video in cui i riferimenti sono pressocché espliciti (il clip di No Static è diretto da Lucio Fulci in persona).

Spontaneo viene il paragone con i Calibro 35, protagonisti di un’operazione analoga per le musiche dei classici poliziotteschi italiani. La differenza però è sotto gli occhi di tutti: mentre i Calibro 35 di fatto rispolverano il genere tale e quale, senza aggiungere un proprio stile nemmeno nei recenti brani inediti, quella di Bottin è una effettiva reinterpretazione delle musiche di riferimento. Horror Disco riunisce in sè l’electro sintetica dei Kraftwerk, i ritmi coinvolgenti di Moroder e le oscurità gotiche dei Goblin, ma nessuna traccia di quest’album potrebbe esser stata composta da uno dei tre. Il disco suona sorprendentemente originale, presenta uno stile oggettivamente unico. Di più: è italiano fino al midollo, a prova di imitazione.

Il ragazzo ha un talento indiscutibile, e sa anche usarlo per far musica di gran presa e fascino. Provate Horror Disco con fiducia, potrebbe diventare una dele vostre colonne sonore preferite.

Ah, dimenticavo: Bottìn ha l’accento sulla i. Non è britannico né statunitense, ma veneziano. Che sia chiaro

Decadance – Cristalli Liquidi & Deux Control – Rosso Carnale (Giosuè Impellizzeri, 2023)

Per il ritorno del progetto Cristalli Liquidi, assente dai radar da circa un triennio, Bottin (intervistato qui) continua a trasformare funambolicamente musiche del passato riadattandole su nuove matrici. Ora tocca a “Fiore Rosso Carnale” di Annie Pascal, scritto da Pasquale Panella e musicato da Enrico Fusco, modificarsi in un pezzo italo disco intriso di malinconia, quella stessa malinconia che contrassegnò gran parte della dance nostrana nel primo lustro degli Ottanta. A svelare la genesi di “Rosso Carnale” è proprio l’autore: «inizialmente il brano mi è stato commissionato da BDC (Bonanni/Del Rio Catalog), una coppia di collezionisti d’arte che volevano realizzare una tiratura di pochissime copie per la loro etichetta Bon Bon per cui avevo già prodotto una cover di “Bambola” di Patty Pravo cantata dai Diva. Mi hanno chiesto di pensare a qualcosa di esclusivo e il brano l’ho proposto io, poi però non siamo riusciti a metterci d’accordo sui dettagli. Io pensavo a un’edizione d’artista, eventualmente anche un pezzo unico, loro invece avrebbero voluto inserire il 45 giri di “Rosso Carnale” in un oggetto da collezione, una scatola in ceramica con dentro altre cose come avevano già fatto con “Bambola”. Insomma, un progetto più articolato di cui la musica di Cristalli Liquidi era, anche giustamente, solo una parte. L’idea mi piaceva però sentivo che stonava un po’ con quello che avevo fatto come Cristalli Liquidi fino a quel momento, così ho preferito ritirare il pezzo e farlo uscire su Artifact. La tiratura è sempre limitata, ma sono duecento copie e non quindici e il prezzo è quello di un disco 12″, alla portata di DJ e appassionati. La grafica è di Lapo Belmestieri (Industrie Discografiche Lacerba). Un po’ mi dispiace di aver rinunciato all’edizione deluxe ma, pur essendo un “gruppo” di nicchia (per non dire peggio), Cristalli Liquidi ha un’identità e un “carattere” che talvolta mi obbligano a delle rinunce. Anni fa, per esempio, ho declinato l’offerta di aprire i concerti di un certo cantante pop perché mi sarei sentito fuori luogo mentre non avrei avuto problemi a fare un DJ set come Bottin nello stesso contesto. Si potrebbe obiettare che Cristalli Liquidi alla fine sono sempre io, ma la verità è che quando faccio cose come Cristalli Liquidi mi sento di lavorare per un progetto che ha una sua autonomia e che, in futuro, potrebbe essere portato avanti anche da qualcun altro».
Ad affiancare Bottin, per l’occasione, è il duo italo francese dei Deux Control ossia Edoardo Cianfanelli alias Rodion e Justine Neulat. «Una volta completata l’Italo Version ho pensato, invece di commissionare un remix, di chiedere ai Deux Control di farne una cover, reinterpretando il brano a modo loro senza usare alcuna delle parti originali, neppure la voce» continua Bottin. «Mi hanno mandato quella che sul disco è indicata come Deux Dub che mi è piaciuta tantissimo perché, al contrario della mia che è molto connotata in stile italo disco, potrebbe essere degli anni Ottanta come pure degli anni 8000. Pur essendo un traccia molto diversa dalla mia, Rodion e Justine hanno mantenuto la velocità (111 bpm) e la tonalità del brano originale. Questo dettaglio mi ha indotto a provare a incollare la mia voce sopra la loro versione, una sorta di duetto posticcio. Poi ci è venuta l’idea di mettere la voce di Justine sopra la main version. Alla fine ci siamo trovati con una canzone in due versioni in cui non importa più quale sia l’originale (che poi è una cover) e quale la copia (la cover della cover). Questo meccanismo di dissimulazione dell’autorialità è la chiave di tutto il progetto Cristalli Liquidi (come ben evidenziato in questo articolo/intervista del 2018 a cura di Jacopo Tomatis, nda), e anche nell’album non sempre è chiaro quali sono i brani originali e quali le cover. Si tratta di un procedimento di mise en abyme anacronistica non poi così diverso da quanto fatto con “Volevi Una Hit” nei confronti degli LCD Soundsystem».
Recentemente il pubblico generalista sta riscoprendo l’italo disco o parte di essa attraverso citazioni più o meno riuscite ma con quasi venticinque anni di ritardo rispetto alla prima ondata che ne recuperò le caratteristiche. Da essere un genere stantio e ancorato a un passato nostalgico da brizzolati revivalisti, l’italo disco così è parzialmente (ri)entrata nel gergo comune, complice anche il retromarketing che contribuisce a mitizzare smodatamente il passato. Ma come reagirebbe Bottin se “Rosso Carnale” diventasse un successo radiofonico e finisse nel calderone del pop? «Ne sarei felice ma non accadrà mai e posso spiegarne anche il perché. Questa riscoperta (che poi è la terza o la quarta) dell’italo disco non è dell’italo disco in quanto tale, è un’idealizzazione dell’italo disco di cui si esasperano certi suoni o certi stilemi, ma il mood è completamente diverso. Per esempio manca del tutto quella malinconia da dancefloor alla Valerie Dore che ho invece cercato di “canalizzare” in “Rosso Carnale”, oppure quell’idea di futuro e di futurità. Non che oggi non si creda nel futuro: siamo tutti convinti, chi più, chi meno, che il mondo non finirà domani, ma abbiamo smesso di pensare che il futuro ci porterà della cose nuove e una vita migliore. Crediamo nel futuro ma non nel progresso. Questa disillusione fa sì che molta musica elettronica di oggi non cerchi più di evocare con i suoni un’allegoria del futuro».
Pubblicato in digitale su Bandcamp a giugno con l’aggiunta di un’acappella esclusiva, “Rosso Carnale” viene solcato pure su 12″ dalla Artifact in un’edizione limitata che, come anticipato sopra, si fermerà alle duecento copie. Che per Cristalli Liquidi sia l’incipit di un secondo album, dopo quello del 2017 su Bordello A Parigi? «Vorrei che il progetto continuasse oltre l’attuale ubriacatura anni Ottanta alla “Stranger Things”» illustra ancora Bottin. «Con questo non voglio dire che “I Ragazzi Del Computer” o “Automan” fossero meglio delle serie Netflix, o che Baltimora e Den Harrow fossero qualitativamente migliori dei The Kolors. Non sono un nostalgico e soprattutto non mi interessano i giudizi di valore. Il prossimo singolo dei Cristalli Liquidi potrebbe però avere un sound molto diverso rispetto a quello di “Rosso Carnale”. Anzi, l’avrà, perché l’ho già completato».

La folgorazione e il mestiere (RUMORE – Gianluca Runza, 2018)

Cristalli liquidi: Battisti, Panella e l’italo disco (Jacopo Tomatis, 2018)

Cristalli liquidi – titolo del disco e nome del progetto – è uno strano gioco di specchi intorno all’italo wave e alla canzone italiana degli anni Ottanta. Cristalli liquidi è anche una band-che-non-è-una-band, ma che per un po’ ha finto di esserlo: è, in realtà, un progetto solista del producer veneziano Guglielmo Bottin (con qualche collaboratore fisso come Alexander Robotnick e Polosid).

Dal 2012, Cristalli liquidi/Bottin ha pubblicato singoli in vinili di brani propri, cover e finte cover, cover che fingevano di essere i brani omaggiati e non gli omaggianti (come nel caso di “Volevi una hit”, concepita come l’oscuro brano italiano ispiratore di “You Wanted a Hit” degli Lcd Soundsystem). Il primo LP omonimo è uscito a fine 2017 per la label olandese Bordello a Parigi, e regala – cosa rara – quaranta minuti di ottima musica capace da sola di generare ore e ore di scavo su YouTube.

Se i suoni del disco, ormai evidentemente storicizzati, evocano già da soli un mondo retrò, la scelta delle canzoni scoperchia una vaso di Pandora di repertori che non si conoscevano o che giacevano nascosti in qualche neurone della nostalgia: il Pappalardo più surrealista con i testi di Panella (accostato al Battisti di “Tubinga”), gli Stadio, il Venditti di “Questa insostenibile leggerezza dell’essere”… e i brani originali: saranno veramente originali, o saranno anch’essi cover di qualcosa che non si conosce e non si ricorda? Per come parlano quel particolare “dialetto” della lingua della canzone italiana, davvero unico e che non ha quasi mai vantato tentativi di imitazione, potrebbero essere anch’essi manufatti d’epoca.

È proprio questo strano rapporto bidirezionale con il proprio modello di riferimento che fa di Cristalli Liquidi qualcosa di diverso dal solito progetto retromaniaco a cui siamo abituati: e in mezzo a tanti progetti tutti uguali, è una gioia imbattersi in oggetti così difficili da identificare, e che invogliano a un ascolto attivo, allo scavo, alla riflessione.

Abbiamo chiacchierato con Bottin di Cristalli Liquidi, e ci siamo fatti consigliare qualche nuovo tesoro da riscoprire.

Nel disco ci sono alcune cover più o meno oscure, e altri brani di provenienza più difficile da tracciare… Per esempio, “Canzone registrata”: in che rapporto è con il brano di Pappalardo da cui è stata ispirata? Oppure, “Volevi una hit” con “You Wanted a Hit” degli LCD Soundsystem?

«“Canzone registrata” è la cover di “Caroline e l’Uomo Nero”, autori Pappalardo/Vanera. È fedele alla ricetta originale, per quanto riguarda il testo di Pasquale Panella: è rimasto sulla bilancia solo un verso, un verso e mezzo per motivi di arrangiamento. Inoltre non ho cantato i “Caroline” che giustificavano il titolo originale, che ho quindi messo tra parentesi (“Caroline e L’Uomo Nero”) perché volevo spostare l’attenzione sul sottotitolo (“Canzone Registrata”). L’ho fatta sentire a Panella che ha risposto con un “La ringrazio molto”. Penso che le variazioni non siano state irrispettose, per quanto una canzone non chiede mai rispetto e reverenza, altrimenti diventa Messa cantata».

«“Volevi una Hit” ha seguito un percorso diverso per giungere poi a un risultato in apparenza simile al precedente. Volevo creare un falso storico: un brano italo disco retrodatato 1984 che gli Lcd Soundsystem avrebbero preso per fare la loro “You Wanted a Hit”. È iniziata col tentativo traduzione letterale del testo in Italiano, ma come spesso accade con gli adattamenti dall’inglese, la canzone mutante e ha preteso parole nuove, una nuova identità. Anche la melodia si è ribellata al ricalco e infatti il ritornello è completamente differente da quello americano. L’argomento esplicito di “Volevi Una Hit” è quello del rapporto tra artista, produttore e successo. Invece è una canzone sull’insuccesso amoroso, sui ruoli assunti a turno dagli amanti: chi fa il fiore e chi il giardiniere. Il testo di James Murphy parlava invece del rapporto con un pubblico infante che vuole spesso menestrelli addomesticati e brani da classifica. Prima di pubblicarla l’ho fatta sentire a James Murphy che l’ha approvata, seppure informalmente. Volevi una hit figura quindi come brano originale di Bottin-Murphy-Doyle. Canzone registrata e canzone derivata». 

Oggi la musica degli Ottanta (tanto l’Italo disco quanto la canzone) è riletta soprattutto attraverso la lente della nostalgia, e spesso apprezzata grazie a essa. Pensi sia così anche per il tuo approccio? O c’è una via di fuga da questa costante ricerca di emozioni nel passato che però, mi sembra, lascia un po’ in secondo piano la riscoperta di quanto di buono c’era nella musica tout court?

«Non ho nostalgia dell’italo disco, che ritengo per lo più musica spazzatura ad eccezione di venti o forse trenta brani capolavoro, anche oggi superiori a molta musica da ballo più moderna. La nostalgia è semmai per certi suoni elettronici un po’ ingenui che negli anni Ottanta han fatto vibrare i miei timpani di bambino. È nostalgia per la semplicità che ci si poteva permettere allora più di ora. Un riff, un coretto italo disco è diretto e sfrontato. Ora c’è spesso molta sovrastruttura, suoni pesantemente stratificati che servono a coprire complicate banalità».

In un’intervista a Soundwall riflettevi su quanto i testi di questo filone della canzone italiana siano alieni da quello che propongono oggi molti nuovi cantautori, con brani spesso incentrati su narrazioni generazionali o sul guardarsi l’ombelico, diciamo così. Ho sempre pensato che questo filone di canzone degli anni Ottanta (ma anche Novanta, in parte), su tutti il Battisti panelliano, sia stato una specie di vicolo cieco nella storia della canzone italiana. È veramente così? Ti sei dato una spiegazione?

«I dischi di Battisti/Panella non assomigliano a nulla. Molti tra coloro che li amano li fraintendono: li considerano materiale per iniziati e ne fanno esegesi veterotestamentarie. Sono canzoni che volutamente sfuggono alla ricerca di senso e di mercato, inutile provare a inseguirle. Anche nella raccolta di cover di Battisti/Panella L/BR (La Bellezza Riunita, uscita da poco per Lacerba/Audioglobe) alcuni degli artisti che hanno partecipato ci hanno messo una gravitas e un pathos a che a mio avviso cadono pesanti come pere sulla leggerezza degli originali». 

«Esiste però tutto un filone della canzone italiana degli anni Ottanta che come dici è una strada non più battuta dagli autori di testi. Un produttore di pop italiano, il più importante e ubiquo di questi anni, dice che ora si cercano testi più sanguigni, da sceneggiata. Poi però escono diarietti, letterine in prima persona singolare. Nella cosiddetta musica indie o alternativa – ma poi alternativa a cosa? – è quasi tutta una narrazione generazionale, in cui anche artisti ormai adulti cantano con parole da adolescenti, talvolta ricorrendo al volgare, sventolato come vessillo di libertà. Personalmente trovavo assai più liberi e indipendenti i testi di Bigazzi per Umberto Tozzi, in cui il verso più triviale era comunque un “guerriero di carta igienica”».

Parliamo degli inediti del disco. A un primo ascolto, si ha molta difficoltà a distinguere tra ciò che è nuovo e ciò che è cover o pseudo-cover. Immagino sia una strategia ricercata…

«Nessuna strategia, per la verità anche le pseudo-cover riprendono brani tra loro molto diversi. Antonello Venditti, il Battisti di Hegel, gli Stadio e gli Lcd Soundsystem non mi pare siano collegati o assimilabili. Sono però finiti dentro lo stesso apparato di arrangiamento e canzonature, quello che ho utilizzato anche per realizzare i brani scritti da me. Due degli originali sono stati scritti insieme a Maurizio Dami (Alexander Robotnick): il provino di “Assolvi Lei” è suo (io ho cambiato parte del testo e della musica e fatto l’arrangiamento). La base strumentale di “Sciame” è tutta di Robotnick, solo il testo è mio. “Miti Ellenici” è cronaca vera e racconta di una certa mia vacanza in certe isole greche con una certa persona. “Restare Andare” è l’evoluzione di un disco strumentale (Arreboles) che avevo precedentemente realizzato per una etichetta californiana.

Vorrei chiederti del sound. C’è una “pacca” italo-wave molto credibile, ma allo stesso tempo diversa, evidentemente attualizzata. Che cosa hai usato? Quali sono gli strumenti che “suonano Italo-wave”?

«A parte “Questa insostenibile leggerezza dell’essere” che è stata arrangiata da Polosid con mezzi a me ignoti, per gli altri brani ho utilizzato principalmente un Juno 6 e un SH-09, vecchie macchine Roland. Per gli archi sintetici un italianissimo Farfisa Syntorchestra. Robotnick su “Sciame” penso abbia utilizzato sempre un Juno ma anche un Oberheim Two Voice. L’effetto italo-wave a cui penso tu faccia riferimento è ottenuto anche scegliendo di fare arrangiamenti molto scarni: una manciata di tracce, pochissime variazioni».

Vorrei chiudere con una richiesta … Scegli per i nostri lettori 5 brani oscuri da riscoprire di quel periodo della canzone italiana? 5 brani che potrebbero essere il lato b del prossimo disco di Cristalli Liquidi…

«Potrebbero essere un lato B del prossimo Cristalli Liquidi, ma probabilmente non lo saranno anche perché non vorrei mai rivelare le mie vere intenzioni».

L’italo-wave è potente nei Cristalli Liquidi (Rollingstone, Claudio Biazzetti 2017)

È del tutto normale provare quel sentimentino di fierezza quando, in quanto italiani, veniamo apprezzati per le nostre opere all’estero. Le classiche cose tipo il parmigiano, le Ferrari, i quadri del Caravaggio. Esiste però qualcosa che 1) ci siamo inventati 2) tutti conoscono all’estero ma che 3) tendiamo facilmente a dimenticare: è l’italo-disco.

Puntualmente, ogni 10-15 anni gli anni Ottanta tornano in classifica, creando sempre nuovi fenomeni artistici ma gettando sempre un po’ di ombra sulle origini, sui suoi pionieri. Come se i suonetti di Uptown Funk li avesse inventati Mark Ronson, tanto per trovare un esempio lampante.

I Cristalli Liquidi invece se ne stanno coi piedi ben piantati fra i cataloghi musicali. Il trio italo-wave prodotto dalla mano esperta di Guglielmo Bottin (DJ e tastierista che ha anche collaborato con Lucio Dalla) parte dall’ABC del funk sintetico nostrano per arrivare a reinterpretare chi poi negli anni se ne è innamorato. Dai Fratelli La Bionda e l’ultimo Battisti agli LCD Soundsystem di papà James Murphy, che tra l’altro Bottin e i suoi hanno coverizzato nella Volevi Una Hit inserita nel primo omonimo LP.

Di Cristalli Liquidi, in uscita il 4 dicembre per l’olandese Bordello A Parigi, oggi abbiamo una succosa preview, sotto forma delle onde robotizzate di Restare Andare. Non solo cover e piccoli omaggi (Canzone Registrata per esempio riprende un oscuro Adriano Pappalardo) ma anche validissimi inediti come quello che abbiamo in anteprima streaming qui sopra. Più sotto invece la tracklist:

1. Volevi una hit
2. Questa insostenibile leggerezza dell’essere (Q.I.L.D.E.)
3. Canzone registrata
4. Incubo assoluto
5. Restare andare
6. Tubinga
7. Sciame
8. Miti Ellenici
9. Assolvi lei

La discollezione di Bottin (Giosuè Impellizzeri, 2020)

Qual è stato il primo disco che hai acquistato nella tua vita?
Escludendo la musica per bambini, il primo è stato “Arena” dei Duran Duran. È uscito nel 1984 quindi avrò avuto sette-otto anni. Ricordo di averlo visto in vetrina in uno storico negozio di Padova, il Ventritré Dischi, piuttosto noto per il grande assortimento ed i prezzi sempre scontati. Il gestore, Maurizio Boldrin, è batterista della scena Bacchiglione Beat (il Bacchiglione è un fiume nel padovano e l’espressione faceva il verso al Mersey Beat di Liverpool). Chiaramente queste sono storie che ho scoperto più tardi, da adolescente, quando ho continuato a frequentare il negozio negli anni Novanta per comprare jazz, acid jazz ed hip hop, in particolare il filone dei De La Soul e Digable Planets. Fu proprio grazie ai campionamenti dell’hip hop che entrai in contatto con la musica degli anni Settanta. Sono nato nel 1977, troppo tardi per aver vissuto direttamente l’epoca degli Steely Dan e degli Earth, Wind & Fire.

L’ultimo invece?
Da tempo non compro più dischi nuovi. Gli ultimi sono stati l’LP degli Zement, un gruppo krautrock tedesco che ho sentito in un locale a Berlino e che mi ricordava i migliori Neu!, e la compilation “Witchcraft & Black Magic In The United Kingdom”, edita dalla Eighth Tower Records. Continuo però a comprare parecchi dischi vecchi, su Discogs, eBay e, più volentieri, ai mercatini. Non frequento negozi di dischi (a Venezia non ce ne sono quasi più) né fiere. Lo facevo tempo fa ma, tra confusione ed entusiasmo, spesso finivo per comprare tante cose di cui avrei potuto fare a meno.

Quanti dischi conta la tua raccolta?
Non sono un collezionista. Inizialmente ho visto i dischi come meri “strumenti di lavoro” per le serate da DJ ma anche e soprattutto per registrare campionamenti. Dischi perché molte cose in digitale e su CD non si trovavano ed ancora oggi parecchie sono di difficile reperimento, ma vale per tutti i supporti fisici come per i file. Rispetto a molti DJ non ho molti dischi e in confronto ai collezionisti ne ho davvero pochi, circa duemila. Non saprei dire però quanto mi siano costati. Alcuni mi sono stati regalati da amici ed ex DJ, parecchi li ho presi a mercatini e negozi non specializzati quindi per pochi spiccioli. Altri ancora li ho pagati a prezzo pieno (se non gonfiato) a fiere del disco o su internet. Controllando su Discogs, risulta che il valore mediano della mia raccolta sia di circa otto euro al pezzo. Mi sembra tanto, rispetto ai miei ricordi di acquisto. Ho sempre cercato di trattare i dischi come una partita di giro, rivendendo i titoli appena un po’ costosi. Se scopro di avere un disco che vale più di trenta/quaranta euro lo metto volentieri in vendita per comprarne quattro o cinque nuovi. Non mi sono mai affezionato troppo ai dischi, come oggetti in sé non hanno mai esercitato un grande fascino su di me. Banalmente mi interessa la musica che contengono anche se anch’io sono legato a certi artwork. Ma quella è grafica, fotografia, e il suo habitat principale è la carta. La musica invece esiste davvero solo nell’aria, quella sugli scaffali o negli archivi digitali è merce. Bella anche, ma di tutt’altra natura dalla musica.

Usi un metodo per ordinarla ed indicizzarla?
Ho un inventario aggiornato tramite Discogs. Mi piace poter ritrovare un disco a colpo sicuro e senza perdere troppo tempo. Questo è importante soprattutto per registrare un campionamento al volo durante una produzione: se ci metto troppo a trovarlo rischio quasi di dimenticarmi cosa stavo cercando. Comunque, nonostante l’organizzazione, capita lo stesso di perdermi e finire per ascoltare tutt’altro. Ho un unico grande scaffale così diviso: le mie produzioni nella prima fila in alto (la più scomoda da raggiungere) e sotto, nella parte centrale, ho tutta la disco music e il funk (fino al 1980-81 circa) in ordine alfabetico per artista. Poi la musica dance anni Ottanta, separata tra produzioni italiane ed estere. C’è quindi una piccola sezione compilation e dischi con brani di più autori, ambient, library, re-edit e una manciata di titoli techno ed house anni Novanta. Poi il pop italiano ed estero e i promo che mi sono stati regalati da artisti ed etichette. In basso, infine, ho due cassette da latteria in cui tengo i 7″ e poi altre due coi dischi non ancora ordinati o di scarso gradimento da cui però talvolta spuntano delle sorprese. Anche il gusto personale cambia col tempo.

Segui particolari procedure per la conservazione? Esegui lavaggi periodici ed utilizzi copertine plastificate per scongiurare problemi di umidità?
Quasi nulla di tutto ciò. Utilizzo qualche busta trasparente per alcuni 12″ ma spesso le trovo già al momento dell’acquisto. Certi 7″ li tengo in bustine di cartoncino, separati dalla copertine perché quest’ultime tendono a strapparsi. Ho pochissime esperienze di lavaggio e tutte molto artigianali, senza prodotti speciali, giusto per togliere un po’ di sporco prima di passare qualcosa in digitale. Ripeto: non sono un collezionista e non ho passione per la conservazione maniacale. Ci sono persone molto competenti su questi aspetti che non approverebbero le mie pratiche.

Ti hanno mai rubato un disco?
No, mai. Sono stato fortunato nel periodo in cui giravo il mondo con la borsa dei dischi, mai uno smarrimento aeroportuale, mai un furto. L’episodio che si avvicina di più ad una perdita avvenne in occasione di una serata al Club To Club di Torino. Il driver lasciò l’auto in divieto di sosta nei pressi del ristorante e alla fine della cena ci accorgemmo che era passato il carro attrezzi portandosi via la macchina e i miei dischi. Per fortuna fu possibile rintracciare il deposito e farci dare le cose in tempo per la serata. Da quella volta, anche se ormai suono quasi sempre da hard disk o USB, porto sempre con me, oltre a un drive di emergenza, anche due CD con l’indispensabile per fare comunque un DJ set di due ore. Non si sa mai.

Qual è il disco a cui tieni di più?
Nessuno in particolare, non essendo un collezionista né amante della merce e della “roba”, nel senso verghiano della parola. Capita che certi collezionisti mi chiedano di poter comprare qualche disco. Vengono in studio e lascio loro spulciare liberamente nel mio materiale, sono disposto a liberarmi di qualsiasi titolo. È accaduto per esempio con l’amico Lorenzo Sannino di Napoli Segreta che si è portato a casa alcuni dei miei dischi preferiti in assoluto, ma sono stato contento perché sono finiti in buone mani e in fondo io li avevo già ascoltati a sufficienza. La cosa che mi piace di più dei dischi è che, oltre a girare sul piatto, girano anche il mondo, passando di mano in mano. È questa la loro forza, sopportare viaggi, traslochi e resistere nel tempo, anche se abbandonati in una cantina. Prima o poi qualcuno li riscopre e ricomincia la passione anche per generi o artisti minori ormai dati per dispersi.

Quello che ti sei pentito di aver comprato?
Nessun gran pentimento. Se un disco non mi piace lo metto nella scatola degli “indesiderati” e non ci penso più.

Quello che cerchi da anni e sul quale non sei ancora riuscito a mettere le mani?
Quelli che vorrei avere ormai sono quasi tutti a portata di Discogs. Se qualcuno dovesse diventare davvero irrinunciabile lo comprerò a prezzo di mercato.

Quello con la copertina più bella?
Nella mia lista c’è una sola sottocategoria, quella dei keepers. Sono poco meno di duecento titoli che vorrei tenermi anche se riuscissi a vendere tutto il resto della mia raccolta (se qualcuno fosse interessato si faccia avanti, l’idea di alleggerirmi è sempre presente). Tra questi keepers, molti hanno una copertina particolare come ad esempio “One Black Dot” dei Mothmen.

Quello che non venderesti per nessuna ragione?
Non cederò mai, neppure sotto la minaccia delle armi, il 7″ degli Avida, “A Fumme Mariuà / La Bustina” (1982) perché me l’ha donato l’autore, il caro amico Maurizio Dami aka Alexander Robotnick.

Nutri una particolare attenzione per i 7″, molti dei quali legati a sigle televisive. Da cosa nasce tale interesse?
Quella per i 7″ è una mezza passione sbocciata negli ultimi anni. Quando capito in un negozio o in un mercatino ormai guardo solo i 45 giri. Trovo siano bistrattati sia dai DJ, sia dai collezionisti (a parte ovviamente gli amanti del reggae). Proprio per questo motivo si possono scoprire ancora tesori in materia di funk, disco e colonne sonore. Molte sigle televisive, ad esempio, sono uscite solo in quel formato. Avviene inoltre che alcune buone stampe su 7″ suonino meglio degli LP, specie se nell’album il brano interessato è tra gli ultimi della facciata. In generale lo trovo un formato comodo e leggero. Mi è capitato di fare dei set a feste di amici solo con 7″ usando come flight case le scatole di latta dei Baicoli, i celebri biscottini veneziani.

Da ascoltatore a compositore: c’è stato qualcosa o qualcuno a spingerti all’attività in studio di registrazione?
Ho iniziato a produrre musica all’inizio degli anni Novanta, con un Amiga della Commodore. A quattordici anni ero parte della demo scene dell’epoca, una faccenda tutta nerd, animata da sparuti gruppi di programmatori, grafici e musicisti. Ci scambiavamo i rispettivi lavori per posta, inviando e ricevendo floppy disc da tutta Europa. Filippo De Fassi, attuale titolare di Phonopress, condivideva la stessa passione. In quegli anni da lui ho imparato parecchie cose sulla musica in generale. Si usava un software chiamato Soundtracker che gestiva quattro tracce mono su cui si programmavano pattern di brevi campioni a sedici bit. Poi sono passato alle band di funk/acid jazz in cui suonavo le tastiere. Intorno al 1997-1998 ho cominciato ad usare Cubase e a frequentare lo studio di un amico, Alberto Roveroni, e lì ho realizzato le primissime produzioni poi distribuite su CD e cassetta.

Credo che una delle tue primissime pubblicazioni sia stata “Chill Reception” di Bluecat, album pubblicato dalla bolognese Irma nel 2001.
Bluecat fu interamente realizzato con un sintetizzatore Kurzweil K2000 ed un campionatore Akai S2000. Le mie prime produzioni erano una specie di drum’n’bass, jungle e trip hop sopra cui suonavo la tromba con la sordina. Un paio di quei brani sono finiti nel citato LP per la Irma. Prima di quello avevo prodotto, sempre per Irma, alcune tracce di cocktail music. Un altro mio mentore è stato (ed è tuttora) Bob Benozzo, fu lui a consigliarmi sin dall’inizio l’uso di alcuni strumenti e software. Ancora oggi mi aiuta nei mixaggi che non mi fido a chiudere da solo. Sono molto contento di sapere che molti tra i giovani musicisti che ho conosciuto da ragazzino stiano lavorando con la musica ancora oggi, ognuno a suo modo e senza aver avuto particolari agganci e facilitazioni. Penso di essere stato fortunato a conoscere e ad imparare da persone diventate poi dei bravi professionisti. Non vengo da una famiglia musicale e, fatta eccezione per qualche anno di pianoforte, i miei maestri sono stati i dischi e questi amici.

Nel 2004 esce “I Love Me Vol. 1” che, tra le altre cose, contiene un remake di “Lunedì Cinema” degli Stadio & Lucio Dalla ricantata da quest’ultimo, con cui peraltro collabori per portare in scena l’opera teatrale “Speak Truth To Power: Voices From Beyond The Dark” come spiegato qui. A quel Vol. 1 però non darai mai seguito, tornando discograficamente operativo solo nel 2009 con l’album “Horror Disco”. Come mai per cinque anni non incidesti più nulla?
“I Love Me Vol. 1” fu il primo di una lunga serie di tentativi (più o meno falliti) di emancipazione dalle etichette discografiche. Fu autoprodotto da me con Irma e Sony limitati al ruolo di distributori. La distribuzione fu infatti capillare ma sostanzialmente sbagliata: finì in tutti i negozi ma nella sezione di rock estero, in ordine alfabetico tra Bon Jovi e David Bowie. Temo di averne ancora uno scatolone nel garage dei miei genitori. Iniziai a lavorare con Lucio Dalla già un paio d’anni prima. Per un grande concerto in occasione dell’anniversario di Tazio Nuvolari riarrangiai l’intero album “Automobili” di Dalla/Roversi, mettendo insieme una band “futurista” di ben dieci elementi (tra cui B C Manjunath alle percussioni indiane, il turntablist Rock Drive e il videomaker Francesco Meneghini) che rimaneggiavano dal vivo materiali audio e video d’epoca concessi da Istituto Luce. Con Dalla sono diventato amico quasi subito ed ho continuato a collaborare su progetti speciali e produzioni teatrali. In quei cinque anni prima di “Horror Disco” in realtà ho realizzato un album uscito successivamente, quello di Tinpong con la vocalist Joy ‘Oy’ Frempong. Anche un remix per Donatella Rettore, poi diventato sigla di MTV Italia, oltre a tanti lavori di sound design, pubblicità ed installazioni. Bene o male, è stato un periodo in cui ero sempre in studio anche se non come artista in prima persona.

Come nacque, invece, “Horror Disco”?
Inizialmente “Horror Disco” doveva essere un’etichetta. Avevo realizzato parecchi brani in bilico tra disco music e colonne sonore. Stevie Kotey, il DJ dei Chicken Lips a cui mandai due CD pieni di quel materiale, pensò che Horror Disco potesse diventare una sublabel della sua Bear Funk. Era un’idea relativamente nuova all’epoca, antecedente e forse anche ispiratrice delle varie Giallo Disco, Voodoo, Discorror, etc. Poi il progetto fu (giustamente) ridimensionato a due EP su 12″ e ad un album su CD e doppio LP. Al momento della release ero già entrato come producer nella scena space disco col singolo “Fondamente Nove” per Eskimo Recordings e soprattutto con “No Static” su Italians Do It Better a cui devo l’inizio della mia esperienza come DJ internazionale.

Fatte poche eccezioni, la tua discografia è cresciuta attraverso etichette estere, dalle britanniche Bear Funk, Z Records e Nang alle statunitensi Italians Do It Better, 2MR e Chit Chat Records passando per la belga Eskimo Recordings e l’olandese Bordello A Parigi. Caso fortuito o scelta intenzionale?
All’epoca in Italia non c’erano label disposte a pubblicare quei generi e a dire il vero anche oggi ce ne sono poche. Mandavo i miei brani a quelle che mi sembravano potessero essere ricettive e che già stampavano dischi che mi appassionavano. Un paio mi hanno risposto e pubblicato. Su Eskimo Recordings in quel momento usciva il materiale di Lindstrøm & Prins Thomas che mi piacevano, Italians Do It Better invece aveva un’estetica visiva che mi sembrava compatibile al mio immaginario. Nessuna scelta esterofila quindi, non ho mai creduto molto ai confini ed alle identità nazionali, con qualche piccola eccezione. Mi sembra una specie di astrologia: siccome si è nati sotto una costellazione o sopra un territorio nazionale, allora si dovrebbero avere un’identità e un destino con caratteristiche predefinite? Non ne sono affatto convinto.

L’italo disco è uno dei tuoi generi di riferimento. Bistrattata e in alcuni casi persino rinnegata da chi la produsse, è tornata in vita una ventina di anni fa ma su iniziativa di DJ, collezionisti ed appassionati esteri, soprattutto nordeuropei. Perché, secondo te, i primi a non accorgersi del valore e della portata rivoluzionaria di certi pezzi sono paradossalmente proprio gli italiani? Banale esterofilia che ci affligge da tempo immemore?
Secondo me l’italo disco non è propriamente un genere musicale ma include tutta la musica dance prodotta in Italia tra il 1977 e il 1987 circa. Dentro c’è di tutto, i Tantra, i Change, Rago & Farina, Alexander Robotnick, Baltimora, Tipinifini, Albert One, Raf e Raffaella Carrà. Un mondo vastissimo fatto di tante musiche quasi tutte di matrice pop ma parecchio eterogenee. Quanto all’esterofilia, certamente è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. A causa dell’esterofilia molti artisti italiani non fanno tante serate in patria giacché è più cool mettere in cartellone artisti di provenienza estera. Sempre per esterofilia, alcuni italiani girano il mondo perché appare cool (o almeno così pareva) per i non-italiani chiamare un DJ italiano, anche se magari è meno bravo di alcuni resident del posto. Sto esagerando, chiaramente è anche la musica che si produce ad attecchire in certi contesti più che in altri. In Italia, nella musica da ballo, siamo quasi sempre stati al seguito di stili che avevano già avuto successo altrove, ma alcune produzioni italiane si spingevano oltre l’imitazione assumendo una propria identità e in qualche caso riuscendo ad imporsi all’estero come “suono italiano”. Tutta l’italo disco nasce come scimmiottamento di musica dance anglosassone. Ora, magari, certi anglosassoni scimmiottano l’italo disco. Questi cicli di influenze reciproche sono perfettamente normali, appartengono a quell’accumulo di strati di cui è fatta ogni cultura.

Nel 2010 crei Artifact, piccola etichetta che si fa notare coi dischi di Cristalli Liquidi accompagnati da ironiche parodie grafiche che rimandano ad un’industria ormai scomparsa e quasi del tutto dimenticata (Discomagic, Numero Uno, Discotto). Quali ragioni ti hanno spinto all’autoproduzione piuttosto che ad affidarti ad altre label?
Come accennavo prima, ogni tanto cerco di emanciparmi dalle label. A volte va piuttosto male, altre invece meglio come con Cristalli Liquidi. Doveva essere un progetto di un solo singolo, “Volevi Una Hit”, autoprodotto perché nessuno intendeva pubblicarlo, nemmeno la Italians Do It Better che temeva problemi con gli LCD Soundsystem a cui il brano è largamente ispirato visto che nasce come cover di “You Wanted A Hit” anche se poi tanto cover non è, ha una sua identità, un suo ritornello e un testo che esulano dall’originale. Ricevuta l’approvazione direttamente da James Murphy, l’ho pubblicato senza indugi. Artifact però non è proprio la mia label e non è nemmeno un’etichetta vera. Più che altro è un accordo di P&D (press & distribution) stretto con un broker olandese. Serve a pubblicare Cristalli Liquidi, i miei re-edit e ultimamente anche brani a mio nome. Forse, in un vicino futuro, anche pezzi di altri artisti. Per questi motivi non la considero un’etichetta, non ha un’identità né tantomeno un’immagine. È solo un modo di uscire sul piccolo mercato della distribuzione fisica di dischi.

Ad Artifact si affianca, nel 2012, pure una seconda “etichetta”, la Tin. Corrono sostanziali differenze tra le due?
Nessuna. Tin è stata semplicemente una serie di 12″ monofacciata coloratissimi con le versioni estese dei singoli dell’album “Punica Fides”. Pure in questo caso parlerei di un tentativo di emancipazione, in parte riuscito ma poi rientrato con la successiva pubblicazione del citato album su Bear Funk. Ora Tin è sostanzialmente inattiva ma resta Artifact.

Ormai le tirature dei 12″ destinati al DJing si sono assottigliate sino a raggiungere la media delle appena trecento copie, soglia risibile se confrontata a quelle dei decenni pre-millennio. Insomma, oggi incidere dischi è tutto fuorché economicamente incentivante e redditizio, gli introiti devono essere recuperati da altri ambiti connessi come le sincronizzazioni (cinema, tv), lo streaming e il download (può essere preso in considerazione sotto una certa soglia?) ed intrattenimento che però, al momento, è messo fuori gioco dal coronavirus. Ritieni che tutto ciò, per chi ha vissuto l’epoca in cui i limiti tecnologici relegavano la musica alla tattilità, abbia logorato la creatività? Per un artista è demoralizzante sapere di non poter più contare su un pubblico disposto a spendere del denaro per acquistare la sua musica?
Un po’ lo è ma contemporaneamente l’abbassamento qualitativo delle produzioni fa sì che ci voglia poco a produrre dischi appena migliori della media, avendone le capacità. Certo, bisogna essere un po’ musicisti, saper scrivere delle linee di basso interessanti, delle melodie anche minime ma comunque efficaci, non basta assemblare loop ed attivare arpeggiatori software. È altrettanto possibile fare buoni lavori di puro sampling o re-editing estremo e creativo. Visti gli introiti minimi di streaming e download, oggi si distribuiscono tanti re-edit e si usano campionamenti in modo piuttosto disinvolto, a volte fin troppo. Quanto al mercato dello streaming, non bisogna dimenticare che si tratta di un’industria sostenuta in buona parte dai grandi dischi registrati nel passato. Con l’economia discografica attuale sarebbe letteralmente impossibile produrre e promuovere musica così come si faceva una volta contando sui volumi di vendita dell’epoca. Inoltre la musica liquida dei servizi di streaming non è posseduta da chi la ascolta e nemmeno da chi paga un abbonamento. Se un giorno le piattaforme dovessero chiudere battenti o andare offline, gli utenti perderebbero tutta la loro raccolta di brani, album e playlist. Cadrebbe il silenzio. Invece i dischi e i CD che si possiedono restano, anche nel futuro per figli, nipoti, pronipoti o per chi li potrà ritrovare in un negozio dell’usato.

Che futuro prevedi per la musica incisa su supporto fisico? Per quanto tempo il disco in vinile potrà continuare ad alimentare l’interesse degli appassionati?
Penso durerà quasi per sempre, magari in quantità ulteriormente ridotte. Oggi c’è perfino un piccolo mercato di stampe per dischi a 78 giri destinati al grammofono. La forza del disco, come dicevo prima, è offerta dalla resistenza a lunghi transiti nello spazio e nel tempo. Un disco passa di mano in mano, di generazione in generazione e, anche se per qualche anno finisce abbandonato, prima o poi viene riscoperto da qualcuno, recuperato in un mercatino, poi recensito ed incensato, suonato anche decine di anni dopo essere stato prodotto. Un disco può avere tante vite e questo coi file, per ora, non succede o comunque accade molto meno. Un artista dovrebbe avere l’obiettivo di essere ascoltato ancora tra mille anni e non solo di entrare nella playlist della settimana o nella chat del selector di moda. Un produttore sa intimamente sa se ha fatto un bello o cattivo lavoro, se ha copiato una formula o se ha aggiunto almeno qualche ingrediente personale, questo al di là del successo o dell’insuccesso ottenuto. Poi è chiaro che bisogna anche cercare di vivere con la musica e questo richiede dei compromessi, degli adattamenti, un allineamento con lo spirito dei tempi. Ma le necessità, per così dire, “alimentari” non dovrebbero mai dettare tutta la linea, a maggior ragione se un disco si pubblica ormai in appena trecento copie. Perché scendere a compromessi col mercato per quantità così basse? Eppure escono ancora tanti dischi tutti uguali. Il disco, bello o brutto, originale o banale, continua a farsi perché gli artisti continuano a volerlo, accollandosi sempre più spesso le spese di produzione e di stampa. Alcune etichette ormai chiedono all’artista di partecipare ai costi, del resto avviene da tempo per le case editrici e per le mostre d’arte di seconda categoria. Poi ci sono label che campano quasi esclusivamente di ristampe più o meno legali di dischi desiderabili (magari perché rari) che hanno un potenziale di acquirenti già assodato. Quelle sono operazioni di mercato che da un lato rispetto perché proteggono dall’oblio certi titoli e li rendono di più facile reperimento, dall’altro però non si può ignorare che ogni ristampa venduta è un disco di musica nuova invenduto e magari nemmeno distribuito. Vale anche per i re-edit, genere che frequento attivamente, pur conscio di quanto sia in diretta concorrenza con le produzioni originali. Ed è una concorrenza un po’ sleale, almeno artisticamente, però gli edit vendono facilmente e con quelli magari ci si fa conoscere prima di uscire con un disco “vero” o si finanza la stampa di un disco più difficile da smerciare.

Tra i tuoi collaboratori più ricorrenti ci sono Maurizio Dami, Roberto ‘Bob’ Benozzo (intervistati rispettivamente qui e qui) e Rodion ma val la pena ricordare anche gli interventi vocali dell’indimenticato Douglas Meakin in “Disco For The Devil” (da “Horror Disco”) e di Lavinia Claws. Ci sono artisti del presente o del passato con cui ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto condividere l’attività in studio?
Con Robotnick la collaborazione nasce dall’amicizia, con Rodion ho realizzato diverse produzioni in passato ma poi ci siamo persi quando si è trasferito all’estero. Mi piacerebbe lavorare ancora con lui, ci siamo sempre divertiti facendo cose che ritengo belle. Ho collaborato pure con Francesco De Bellis (Francisco, L.U.C.A.) per “BFR (Space)” e “Zombie Erotic”, e proprio in queste settimane stiamo ultimando due nuovi brani. Da poco ho coprodotto un EP con Fabrizio Mammarella ed ho registrato una canzone in italiano con Debora Petrina. C’è inoltre un nuovo progetto personale che uscirà presto sotto uno pseudonimo. Non ho molti sogni nel cassetto, forse perché ho sempre avuto tante cose in cantiere. Mi è anche capitato di incontrare alcuni di quelli che erano stati i miei miti musicali ma che, senza fare nomi, in alcuni casi si sono rivelati mezze delusioni. Forse avevano perso lo smalto di un tempo oppure li avevo idealizzati troppo. Certi dischi, soprattutto quelli del passato, non sono il frutto di una sola persona ma il risultato di una squadra fatta di tanti talenti, magari passati in secondo piano.

In questa intervista di Fabio De Luca, pubblicata da Rockit il 17 gennaio 2018, sveli molte curiosità su una delle tue “creature” meglio riuscite, Cristalli Liquidi. Pochi mesi fa la tua “band/non band” è tornata con “Ragazza / Madre”, un EP pubblicato questa volta in CD dalla fiorentina Industrie Discografiche Lacerba, di cui esiste una limitatissima tiratura di appena 40 (!) copie in formato 10″. Puoi raccontare, anche dettagliatamente, il contenuto?
Cristalli Liquidi è un progetto strano, per certi versi imprevisto. Come raccontavo prima, doveva essere un unico disco, misterioso ed anonimo, poi sono diventati due, tre, quattro ed addirittura un album con alcuni brani scritti e prodotti insieme a Robotnick ed altri nati in collaborazione coi Polosid. Fino ad allora ero rimasto dietro le quinte. Poi con “Tubinga” (rivisitazione dell’omonimo di Lucio Battisti, dall’album “Hegel”) mi sono “rivelato” in un video performativo, un unico take realizzato con la performer Laura Pante e la fotografia di Giovanni Andreotta. Si è tenuto anche un piccolo tour in cui mi sono esibito come cantante (non l’avrei mai immaginato di farlo!) accompagnato alla batteria dall’amico Frank Agrario. È successo tutto così, senza progettarlo. Potrebbe essere già finito oppure ricominciare. Da qualche tempo collaboro con Lapo Belmestieri di Lacerba, è un grafico di pregio e cura bene ogni cosa. Così è nato “Ragazza/Madre” che vuole essere la conclusione della liason col repertorio di Lucio Battisti e Pasquale Panella. La scelta di fare quaranta copie su vinile 10″ è di Lacerba, ma esiste anche il digitale.